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13 dicembre 2012

La conciliazione delle origini


[A cura di Carlo Alberto Calcagno - Avvocato, Mediatore e Docente ADR Quadra]

PRIMA PARTE

SECONDA PARTE (new)

 

PRIMA PARTE

La soluzione cooperativa delle controversie si ritrova da tempi remoti e s’incrementa soprattutto in Cina ancora oggi grazie al Confucianesimo che ha sostenuto e valorizzato un’impostazione tradizionale di oltre 4000 anni.

Anche il Buddhismo in tempi successivi ha avuto un largo influsso sulla diffusione degli strumenti alternativi in Giappone.

In base a tale dottrina nel Giappone Tokusava (1603-1867), ossia dalla nostra età barocca in poi, era dovere dei membri più alti ed autorevoli della società quello di mantenere la pace entro i confini della loro influenza sociale o politica, e quando necessario di fare ogni sforzo possibile per mediare[1].

La conciliazione si è inoltre manifestata e si manifesta anche in Oriente nelle forme più varie: gli stessi Giapponesi, ad esempio, non hanno il concetto di negoziazione assistita[2], né della piena riservatezza[3]; la mediazione non dura un solo incontro o poco più, ma può andare avanti anche alcuni mesi; l’accordo si basa su reciproche concessioni richieste alle parti dai mediatori e quindi non propriamente sulla soddisfazione degli interessi. La procedura inoltre non è informale, ma formale visto che la commissione che media ha tutti i poteri istruttori del nostro giudice civile[4].

Tuttavia, a ben vedere, gli istituti di ordine negoziato trovano la loro ragione d’essere nella natura dell’uomo e quindi non gli si può attribuire alcuna origine in particolare.

Platone nel dialogo I de Le leggi si interroga sul quesito se sia più avveduto un legislatore che si preoccupi di mantenere la pace esterna, ovvero quello che desideri la conservazione di quella interna. E fa pronunciare  ad un suo personaggio detto “Anonimo Ateniese”[5] queste parole: “Ma non dovremmo forse preferire un terzo tipo di giudice, uno che, raccolta una famiglia divisa, non mettesse a morte nessuno ma ne riconciliasse i membri e per il futuro desse loro delle leggi per assicurare una piena concordia reciproca?”[6].

Nel dialogo XI il grande filosofo così si esprime in merito alle questioni di possesso e di affrancamento dello schiavo: “I processi per questi fatti siano di competenza dei tribunali e delle tribù, a meno che le parti non pongano fine alle imputazioni reciproche presso dei vicini o dei giudici da loro scelti”.

Ma ben prima di lui Omero sottolineava principi che pur dettati per l’arbitrato influiranno anche sulla conciliazione moderna[7]: gli uomini di quel tempo, infatti, 1) accettavano la decisione solo in quanto proveniente da persona a cui avevano conferito il potere di prenderla, 2) osservavano le regole se ciò fosse frutto di una libera scelta[8]: avevano dunque ben chiaro il concetto di accordo e di volontarietà che stanno alla base degli strumenti di ordine negoziato.

Sempre nel mondo omerico è interessante ai nostri fini la regolamentazione dell’omicidio[9].

Si potevano presentare tre situazioni: la vendetta, l’accordo transattivo (αϊδεσιϛ) comportante il pagamento di una somma a titolo compositivo[10] e l’esilio[11].

La composizione pecuniaria seguiva ad un incontro in cui i parenti del defunto e dell’omicida si riconciliavano e suggellavano il loro accordo con una cerimonia pubblica  solenne[12].

Ma se anche un solo parente si rifiutava di accettare la composizione poteva scattare la vendetta (di qui si può capire che l’accordo non era cosa frequente): è principio anche della conciliazione odierna che tutte le parti coinvolte debbano trovare soddisfacimento dalla stipulazione dell’accordo.

Per consentire al colpevole di poter procurarsi il denaro per il pagamento che fosse accettato egli doveva evidentemente restare libero e allora interveniva un garante (εγγυητήϛ) che quindi diveniva obligatus[13].

Vi è chi (PARTSCH; WOLFF) sostiene che il colpevole dell’omicidio venisse consegnato al garante al momento in cui quest’ultimo faceva la promessa ovvero chi sostiene (MAROI) che fosse il garante ad essere consegnato agli offesi: comunque sia dalla materialità del vincolo si fa derivare l’uso sostitutivo più tardo di stringersi le mani[14] al momento dell’effettuazione della promessa[15].

L’organizzazione sociale arcaica interveniva soltanto per dichiarare legittimo che in assenza di pagamento potesse appunto scattare la vendetta e per garantire che una volta pagata la somma i parenti del morto non potessero ancora vendicarsi: in questo senso un successivo provvedimento del Consiglio degli anziani[16] statuiva se vi fosse stato o meno pagamento.

All’epoca, infatti, che il reo fosse una assassino era dato per presunto sulla base della dichiarazione della famiglia dell’offeso ed era irrilevante ai fini del diritto di vendetta che l’omicidio si fosse realizzato o meno volontariamente; non c’era inoltre un accertamento giudiziale a seguito del quale scattasse una sentenza.
Essa verrà emessa soltanto nel VII sec. a. C. a partire dalla legislazione di Draconte che stabilì appunto il principio per cui nessuno poteva essere messo a morte senza una sentenza di colpevolezza: veniva però anche all’epoca lasciato ancora agli offensori il diritto di eseguire il provvedimento.

Solo con l’istituzione della magistratura degli Undici, all’età di Demostene, si ebbe una esecuzione pubblica delle sentenze capitali[17].

Gli Ateniesi dell’età classica[18] non gradivano che si litigasse senza fondati motivi: così veniva imposto il versamento di una cauzione che andava persa se la lite era immotivata e pure di una multa di 1000 dramme che veniva elevata a chi abbandonasse un pubblico processo o non ricevesse in esso almeno un quinto dei voti favorevoli[19].

Le entrate per tasse e multe processuali potevano arrivare sino a 100 talenti all’anno: per comprendere bene la cifra si tenga presente che le entrate annue di Atene ai tempi di Aristofane (fine V secolo a. C.) erano complessivamente di circa 2000 talenti[20].

L’omicidio[21] ad Atene veniva perseguito su azione privata e non pubblica[22].

I parenti del morto dovevano andare sulla tomba del loro caro e piantarvi una lancia. Era una dichiarazione simbolica di guerra[23]  (cosi del resto accadeva anche a Roma quando i Feciali dichiaravano guerra piantando appunto un’asta nel territorio nemico).

A seguito di questa pratica denunciavano il reato che veniva istruito da un arconte il quale invitava il reo a stare lontano dai luoghi.

In sede istruttoria si tenevano ben tre udienze nelle quali il giudice istruttore (Arconte re) cercava di comprendere che tipo di omicidio fosse[24] e le parti si scambiavano le proprie ragioni: in sostanza potevano venire ad un accordo all’esito di quella che nel diritto statunitense moderno viene attualmente detta discovery[25].

La legislazione penale era poi ispirata in certe ipotesi alla conciliazione e al perdono: con Draconte si tenta di ridurre drasticamente i casi in cui l’offensore meritasse la morte.

Nel caso ad esempio di omicidio involontario[26], qualora non vi fosse alcun parente del morto che procedesse contro l’omicida[27] i magistrati Efeti sceglievano dieci uomini della curia dell’ucciso, onde si riconciliassero con l’uccisore e questi poteva restare in patria senza pericolo[28].

La pena dell’omicidio volontario (ossia premeditato), ovvero la morte, poteva poi condonarsi ed i parenti non potevano procedere nei confronti dell’uccisore, se l’ucciso prima di morire lo avesse perdonato[29].

I Dieteti pubblici ad Atene esperivano un tentativo obbligatorio di conciliazione[30] anche nei casi di furto per un valore superiore alle dieci dracme[31]; se il tentativo  falliva emettevano un lodo appellabile ai giudici popolari che potevano anche riformare in peius la decisione aggiungendo alla pena pecuniaria la sanzione accessoria della gogna[32].

 

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[1] K. FUNKEN, Comparative Dispute Management “Court-connected Mediation in Japan and Germany”, (March 2001). University of Queensland School of Law Working Paper No. 867. Available at SSRN: http://ssrn.com/abstract=293495 or doi: 10.2139/ssrn.293495.
L’ottica mediativa riposa però anche sul concetto di non-azione (wuwei) proprio appunto del Taoismo (v. il Tao the Ching di Confucio). Conseguentemente compito del mediatore è quello di attenersi alla volontà delle parti.

[2] Non tengono sessioni congiunte (se non la prima che è meramente informativa), ma solo sessioni private.

[3] I terzi interessati alla mediazione possono essere convocati in mediazione dalla commissione di mediatori, a prescindere dalla volontà delle parti.

[4] K. FUNKEN, Comparative Dispute Management “Court-connected Mediation in Japan and Germany”, cit.

[5] Ossia il personaggio che nel dialogo impersona la posizione del grande filosofo.

[6] Leggi, 628. Platone, Le Leggi, trad. di Franco Ferrari e Silvia Poli, op. cit., p. 91.

[7] Nell’Odissea (Canto VII, v. 70-75) Omero ci rappresenta inoltre la regina Arete, moglie di Alcinoo, come una nobile di mente e di animo che appiana i contrasti tra coloro che ama.

[8] E. CANTARELLA, Diritto greco, Cuem, Milano, 1994, p. 175

[9] Stiamo parlando di un periodo successivo al 1400 a. C.  e che giunge sino all’età classica (800 a. C.-529 d.C.)

[10] Ossia di una pena (ποινή) privata in luogo della vendetta.

[11] L’esilio non era una pena, bensì una fuga che consentiva di evitare la morte. In seguito diverrà una pena che comporterà anche la confisca dei beni. Solo chi era ostracizzato non era soggetto a confisca, perché l’esilio, decennale, era in tal caso privo di una ragione precisa;  ma era fatto raro perché l’ostracoforia si verificava una volta all’anno. Cfr. La Grecia ai tempi di Pericle, op. cit., p. 277. Più tardi all’alternativa tra vendetta e pagamento della pena privata, si sostituirà per legge il pagamento di una somma e quindi nasce l’obbligazione ex delicto, ossia la sanzione penale. A. BISCARDI, Diritto greco antico, Giuffré, Varese, 1982, p. 160-161. La composizione pecuniaria peraltro doveva tener conto dell’oltraggio commesso e della posizione della vittima (BISCARDI, Diritto greco antico, op. cit., p. 278), particolarità questa che sarà poi anche del guidrigildum longobardo.

[12] E. CANTARELLA, Diritto Greco, op. cit., p. 184.

[13] Questa ipotesi nel diritto greco è considerata la prima fonte dell’obbligazione contrattuale. BISCARDI, Diritto greco antico, op. cit., p. 164.

[14] Immagina questa utilizzata da diversi organismi di mediazione anche oggi.

[15] BISCARDI, Diritto greco antico, op. cit., p. 165.

[16] Visto come tribunale o forse come arbitro. L’usanza  ci viene ricordata da Omero (Iliade, Libro XVIII, 497-508): sullo scudo di Achille il dio Efesto ha rappresentato gli anziani di una città raccolti a giudicare appunto una causa per indennizzo da omicidio; l’accusatore chiedeva di essere indennizzato e l’accusato diceva di aver già pagato.

[17] V. E. CANTARELLA, Diritto Greco, op. cit., p. 193 e p. 217

[18]Il funzionamento della giustizia ci è noto solo per quanto riguarda Atene. Per le atre città greche abbiamo informazioni scarse ed insufficienti. (Cfr. R. FLACELIERE, La Grecia al tempo di Pericle, Rizzoli, 1983, p. 275.).

[19] Cfr. La Grecia al tempo di Pericle, op. cit., p. 279.

[20] C. CANTÙ, Appendice alla Storia Universale, vol. Unico Delle Legislazioni, Pomba & C., Torino, 1839, p. 135 e ss.

[21] Facciamo riferimento a quella di quel dracone o Draconte del VII secolo a. C. che conosciamo parzialmente dal 1843, quasi totalmente dal 1972 quando si è provveduto a restaurare la stele che la contiene (del 408-409 a.C.). Vedi E. CANTARELLA, Diritto greco, op. cit., pp. 209 e ss.

[22] In Grecia e pure a Roma non esisteva il pubblico ministero o la nostra procura della repubblica. I magistrati prendevano molto raramente l’iniziativa di una incriminazione. La Grecia ai tempi di Pericle, op. cit., p. 278. Lo Stato nella persona di qualsiasi cittadino interveniva solo se i parenti del defunto non perseguivano la vendetta macchiandosi di empietà. A. BISCARDI, Diritto greco antico, op. cit., p. 166.

[23] V. amplius E. CANTARELLA, Diritto greco, op. cit., pp. 209 e ss.

[24] A secondo della tipologia il dibattimento si svolgeva davanti ad un tribunale diverso (Areopago, Palladio, Delfinio, Freatto, Pritaneo) che era costituito da 51 Efeti.
Ad esempio per l’omicidio cosiddetto legittimo (ad es. uccisione di un atleta durante le gare, di una moglie infedele e del suo amante ecc.) si andava davanti al Delfinio.

[25] Il meccanismo è simile in fondo a quello della judicial mediation.

[26] Anche l’omicidio doloso, che poteva essere voluto con la ragione  ossia d’impeto presso i Greci era forse considerato involontario; del pari si trattava quello colposo ossia quello che difettava della volontà di uccidere sia razionale che istintiva e che era dettato solo da trascuratezza. Il filosofo Gorgia specifica che si è responsabili solo delle proprie azioni volontarie. E tali non sono le azioni determinate dalla volontà del caso, dalla decisione degli dei, dalla necessità, dalla violenza, dalla persuasione della parola, dallo stato emotivo o passionale. Per Platone sono volontari e vanno puniti come tali solo gli omicidi commessi ingiustamente e con premeditazione. Aristotele invece determina nel pensiero un’inversione di tendenza: stabilisce che sono involontarie le azioni che si compiono per forza o con ignoranza, mentre sono volontarie quelle azioni che non si compiono per forza, che si compiono senza errore e con la consapevolezza del fine (quindi anche un atto non premeditato può essere volontario). Cfr. A. BISCARDI, Diritto greco antico, op. cit., p. 303  e ss.

[27] O che gli desse il perdono ovvero che gli  rimettesse la colpa.

[28] Se essi non avevano nulla in contrario e non lo costringessero all’esilio o all’assenza di un anno.

[29] L’offensore era solo soggetto a particolari riti di espiazione. V. C. CANTÙ, Appendice alla Storia Universale, op. cit., p. 126. Ma se il defunto non avesse perdonato i parenti del morto potevano essere accusati di empietà  se non provvedevano alla denuncia. E ciò specie se il defunto avesse imposto col testamento – che poteva essere anche orale – al figlio nato o nascituro l’obbligo di perseguire giudizialmente chi abbia causato la morte del testatore (tale era, in età classica, la forma legale della vendetta). La situazione era piuttosto delicata perché presso i Greci il testamento successivo non revocava il testamento anteriore e dunque se il testatore non avesse distrutto tutte le copie del testamento anteriore che imponevano la vendetta, gli eredi avrebbero dovuto provvedervi anche in presenza di successivo testamento. A. BISCARDI, Diritto greco antico, op. cit., p. 126-127.

[30] Anche in Roma la II delle XII tavole prevedeva del resto che se si potesse transigere sul furto col ladro, ed in tal caso cessava l’azione di furto (“Si pro fure damnum decisum sit, furti ne adorato”).

[31] Quindi fuori dalla loro competenza per valore. Un po’ come accadrà in seguito nel settore civile per il conciliatore del 1865, quello del ‘42 e da ultimo il giudice di pace del 1991.

[32] V. amplius C. PELLOSO, Studi sul furto nell’antichità mediterranea,Wolters Kluver Italia Srl, Padova, 2008, p. 111; L. SCAMUZZI, voce Conciliatore e conciliazione giudiziaria, in Digesto Italiano, vol VIII p. I, Unione Tipografico-Editrice, Torino, 1896, p 40. L’imputato però doveva essere uno schiavo. Cfr. La Grecia al tempo di Pericle, op. cit., p. 191.

 

SECONDA PARTE

 

[A cura di Carlo Alberto Calcagno - Avvocato, Mediatore e Docente ADR Quadra]

 

 

Presso i Greci[1] era vietato muovere guerra[2] senza prima aver offerto la pace: gli Araldi adempivano a questo compito come a quello di dichiarare la guerra  e proclamarla in pubblico.

Essi avevano anche altre importanti funzioni sempre connesse con la pace o con la giustizia: bandivano i giochi olimpici, durante i quali cessavano le guerre ed ogni contesa[3], su invito del presidente della ecclesia leggevano l’ordine del giorno e se si decideva di procedere a discussione invitavano chi lo voleva a prendere la parola, proclamavano giornalmente il nome dei componenti delle giurie di Eliasti che votavano le cause nei tribunali e, quando era il momento, chiamavano detti giudici a votare; provvedevano ancora al procedimento civile di manomissione degli schiavi e alla proclamazione alla polis dell’espulsione del figlio indegno dall’ οΐϰος (oikos = casa, gruppo familiare)[4] .

Si trattava di persone sacre e rispettate non meno dei sacerdoti[5].

Su loro imitazione nelle città della Magna Grecia vennero costituiti gli Irenofilaci[6], ossia i custodi della pace, che sedavano le contese private con la ragione[7]: questo tipo di impostazione lo si ritroverà in diverse legislazioni europee dell’Ottocento in tema di conciliazione.

Gli Irenofilaci prima di ogni guerra trattavano la pace e qualsiasi soldato o re, prima di scendere in armi o muovere guerra doveva avere il loro assenso[8].

Secondo Plutarco fu Numa[9] ad istituire in Roma i sacerdoti Feciali che avevano la stessa funzione e poteri degli Irenofilaci, tanto che dai Romani si attribuì la responsabilità delle rovine portate dai Galli[10] ad un ambasciatore che aveva senza permesso abbandonato il suo ruolo di araldo, per prendere le armi[11].

I Romani erano convinti che il diritto non esistesse se non in virtù dell’opera di una determinata società (ubi societas ibi ius); e conseguentemente pensavano che il diritto proteggesse solo i cittadini di quella società o coloro che la società riconosceva in qualche modo degni di protezione.

Quindi un popolo straniero, anche se non in guerra, era considerato non soggetto alla legge e potenziale oggetto di mira espansionistica nei beni e nelle persone.

Tali principi erano riconosciuti da Roma anche a favore degli altri popoli e quindi perché s’intavolasse una relazione giuridica era necessario un trattato che sancisse i reciproci diritti ed obblighi[12].

Anche in assenza di trattato però la regola della libera aggressione subiva eccezione a proposito degli ambasciatori che erano sacri ed inviolabili[13], pure nel fervore della guerra[14]; ma essi non dovevano venire meno al loro ruolo prendendo le armi contro il popolo presso cui venivano inviati[15].

Nell’episodio della guerra contro Brenno, come lo stesso Plutarco ci racconta in un’altra delle Vite Parallele[16],  vennero meno le regole appena descritte.

In primis il riconoscimento da parte di Roma della reciprocità, in assenza di trattato.

I Galli assediavano Chiusi e furono mandati tre ambasciatori a dissuaderli, ma Brenno argomentò che aveva diritto di continuare l’assedio, perché i più forti, secondo l’insegnamento della stessa Roma[17], hanno diritto di prendere i beni dei più deboli[18]; uno dei tre ambasciatori, Quinto Fabio Ambusto, preso dall’ira imbracciò le armi ed uccise un comandante gallo.

Secondariamente un ambasciatore era venuto meno appunto all’obbligo di non imbracciar le armi.

I Galli in conseguenza dell’uccisione mandarono un araldo a Roma a chiedere che gli fosse ufficialmente consegnato l’uccisore, ma quest’ultimo, la cui famiglia era assai potente, chiese al Senato di risparmiargli la pena e lo ottenne[19]. Così Brenno saccheggiò Roma.

Se invece con un popolo non intervenivano trattati di pace, secondo la regola appena vista, la guerra per Roma era facoltativa, ma non equa. Per diventare tale doveva essere solo difensiva e costituire il mezzo estremo per ottenere ragione.

Ma comunque si tentava sempre un equo componimento.

I Feciali andavano a chiedere un’indennità e la consegna degli spergiuri; uno di loro detto Padre Patrato, giunto ai confini, gridava ad alta voce il suo nome e l’incarico ricevuto, convalidando con giuramenti ed imprecazione la verità delle sue parole. E così continuava a fare fino a che incontrava qualcuno. Ma se trascorrevano trentatré giorni senza ottenere ragione tornava indietro e dichiarava in senato che secondo il diritto divino nulla si opponeva alla guerra.

A ciò seguiva comunque[20] un’ulteriore intimazione di un Feciale che contestualmente infiggeva una lancia nel territorio nemico[21].
Tante erano le premure per mantenere la pace che a Roma si dedicò addirittura un tempio alla dea Concordia[22].


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[1] Ma anche presso gli Ebrei come ci racconta il Deuteronomio. La guerra per considerarsi giusta e legittima doveva essere in primo luogo decisa da un’assemblea popolare e poi dichiarata al nemico con un’ambasceria e proclamata pubblicamente da araldi. F. CANTARELLA, op. cit., p. 366.

[2] Fino alla guerra del Peloponneso (431 a. C.) si osservavano comunque delle regole di diritto umanitario internazionale: protezione dei santuari, diritto ai riti sacri di sepoltura, rispetto dei neutrali, dei supplici e dei patti di capitolazione, condono della vita a chi si arrendeva, a chi non era combattente, ai prigionieri; a questi ultimi veniva comunque garantito un trattamento umano. F. CANTARELLA, op. cit., p. 366.

[3] A. NIBBY, Osservazioni artistico-antiquarie sopra la statua volgarmente appellata il Gladiator Moribondo, Vincenzo Poggioli,1821 p. 14 e ss.

[4] La Grecia ai tempi di Pericle, op. cit., p. 285 e 288. A. BISCARDI, Diritto greco antico, op. cit., p. 63, 95 e 106.

[5] Così ci vengono descritti da Omero, Polibio, Plutarco e Diodoro Siculo. V. G. A. GUATTANI, Lezioni di storia, mitologia e costumi, Puccinelli, Roma, 1838, p. 348. Gli araldi mantengono un ruolo di primo piano anche nel Medioevo: stabiliscono le regole delle giostre e dei tornei cavallereschi, assistono ai matrimoni, banchetti ed ai funerali reali. Al tempo del principato riprendono il loro ruolo di annunziare la guerra e la pace. Nelle battaglie si tenevano dinanzi allo stendardo, numeravano i morti, chiedevano la restituzione dei prigionieri, intimavano alle piazze di arrendersi, e nelle capitolazioni precedevano il governatore della città; rendevano pubbliche le vittorie, e ne portavano talvolta la notizia nelle corti straniere ed alleate. Se ne hanno notizie sino a Luigi XIII ovvero sino al 1643. A. BONFANTI., Dizionario delle origini, invenzioni e scoperte nelle arti, nelle scienze, nella geografia ecc., 1828, p. 107 e ss.

[6] PLUTARCO, Le vite parallele, Numa, capitolo XII, trad. M. ADRIANI, Firenze, 1859, p. 159.

[7] In greco il termine “irene” indica appunto quella pace che non si stabilisce per forza, ma per via di ragione.

[8] PLUTARCO, Le vite parallele, Numa, capitolo XII, trad. M. ADRIANI, Firenze, 1859, p. 159.

[9] Numa Pompilio, secondo re di Roma, visse secondo alcuni (ADRIANI) tra il 712 ed il 669 a.C. e secondo altri tra il 754-671 (AMYOT).

[10] Si fa riferimento al sacco di Roma operato da Brenno nel 391 a. C.

[11] L’ambasciatore, come ci ricorda T. LIVIO (Ab urbe condita, VI,1,6)  venne appunto citato in giudizio dal tribuno Cneo Marcio  perché aveva preso le armi contro il diritto delle genti e dalla condanna lo salvò soltanto la morte.

[12] F. WALTER, Storia del diritto di Roma sino a Giustiniano, vol. 1 parte prima, Cugini Pomba e Comp. Editori, Torino, 1851, p. 89-90.

[13] T. LIVIO, Ab urbe condita, (I, 14 II,4, IV, 17.19.32; XXX, 25). Chi romano avesse fatto offesa ad un legato doveva inoltre essere consegnato dai feciali al popolo da cui l’ambasceria era partita. T. LIVIO, Ab urbe condita, XXXVIII.

[14] L’unica restrizione che i Romani ponevano alla libertà di ambasciatori che fossero in guerra con la città, è che non potessero calpestare il suolo di Roma; infatti, il Senato li incontrava sempre fuori dalle mura. F. WALTER, Storia del diritto di Roma sino a Giustiniano, op. cit., p. 90.

[15] T. LIVIO, Ab urbe condita, I, 36 e 51.

[16] PLUTARCO, Le vite parallele, Camillo, capitolo XVII, trad. M. ADRIANI, Firenze, 1859, p. 316 e ss.

[17] Che nella stessa situazione aveva combattuto contro i popoli da cui aveva  ricevuto offesa (Albani, Fidenati, ecc.).

[18] Peraltro avevano chiesto ai Chiusdini di consegnare delle terre incolte ed essi si erano rifiutati.

[19] E non solo, venne pure eletto tribuno militare. PLUTARCO, Le vite parallele, Camillo, capitolo XVIII, p. 318.

[20] Nella Roma primitiva, poi si ritenne più comodo considerare come “straniero” un appezzamento di terreno presso il tempio di Bellona e qui gettare l’asta.

[21] F. WALTER, Storia del diritto di Roma sino a Giustiniano, op. cit. p. 88 e ss.

[22] Fu eretto per voto da Furio Camillo nel 387 e poi rifatto da Costantino perché era stato dato alle fiamme sotto Massenzio. A dire il vero a Roma ce ne erano due, uno della Concordia Prenestina che è quello a cui facciamo riferimento e l’altro che fu ribattezzato della Concordia Augusta. R. V. CORTONESE, Accurata e succinta descrizione topografica delle antichitá di Roma, Volume 1, P. Piale e M. de Romanis, Roma, 1824, pp. 85 e ss.