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8 dicembre 2012

L’arbitrato dal Medioevo all’Unità d’Italia

 

A cura di Carlo Alberto Calcagno - Avvocato, Mediatore e Docente ADR Quadra

 

Un istituto che ricorda l’arbitrato nel Medioevo[1] è l’episcopalis audientia[2].


Era in facoltà delle parti[3] di ricorrere al tribunale del vescovo per la risoluzione delle liti; la sentenza vescovile era emessa sulla base di valutazioni equitative ed aveva secondo alcuno[4]  valore di arbitrato[5].


Il processo davanti al tribunale del vescovo doveva essere peraltro preceduto da un tentativo obbligatorio di conciliazione e si teneva il lunedì per dar modo al vescovo di condurre, fallito il primo, un altro tentativo di conciliazione da solennizzare nel corso della liturgia domenicale[6].


Se scorriamo uno Statuto medievale del XIII secolo[7] ci rendiamo facilmente conto che le decisioni più importanti erano assunte tramite arbitri come ci viene indicato già ne Le leggi di Platone.


Così in tema di giustizia: <<Item, statuimo che qualunque del detto Comune sarà eletto ad alcuna lite o vero discordia diffinire d’alcuni uomini del detto Comune, quello cotale così electo sia costrecto per saramento la detta discordia diffinire e dare il lodo da inde un mese: e ciò che laudato sarà, el rectore e ‘l camarlengo faccia el lodo tenere fermo. E chi contra facesse, sia punito in X soldi di denari>>[8].


L’arbitro doveva giurare dunque e proferire il lodo entro un mese ed il governo del Comune garantiva l’esecuzione. L’arbitro veniva chiamato a giudicare sia nel caso di controversia che di discordia: vedremo che questa doppia attribuzione arriverà sino al conciliatore delle due Sicilie dell’Ottocento. L’imposizione della sanzione da inadempimento del lodo è, come sappiamo, tipica del diritto romano giustinianeo.


Ma gli arbitri si sceglievano anche quando si trattava di determinare i confini degli immobili pubblici[9]:<<Item. Statuimo che el rectore debba far chiamare tre buoni massari di detto Comune, e’ quali debbiano terminare tutta la terra del Comune; e terminata, neuno debbia laborare in termini; e chi contra facesse, sia punito per ciascuna volta in X soldi di denari>>[10], ovvero le pubbliche vie: <<Item, statuimo et ordiniamo ch’el signore e ‘l camerlengo sieno tenuti a fare chiamare al loro consellio tre buoni omini e leali di Montagutolo, e’ quali facciano acconciare e fare fare tutte le vie che sono utili per li uomi e per le femmine e per le bestie di Montagutolo… E che e’ buoni uomini che sono aletti dal consellio, debbiano giurare e fare saramento nuovo; el quale saramento lo’ sia contiato di farle fae bene e lealmente…>>[11], o ancora il regime delle acque:<<Item, statuimo et ordiniamo che e’ detti tre omini e’ quali saranno aletti per fare acconciare le vie, sieno tenuti e debbiano tutte l’acque le quali corrono per le vie del Comune,…>>[12] o infine quando si trattasse di fare una stima dei beni pubblici:<<Item, statuimo et ordiniamo ch’el camerlengo e’l consellio debbiano eléggiare quattro buoni omini, due de la villa e due del castello, e’ quali debbiano fare, col camerlengo e col consellio, e’ beni del Comune>>[13].


Diversi Statuti medioevali prevedevano poi l’arbitrato obbligatorio per le liti tra parenti[14]: ne riportiamo alcuni esempi.


Lo Statuto dell’Università ed arte della Lana di Siena (1298-1300) così prevedeva alla Seconda distinzione capitolo XVIII[15]:<<Et se la lite o vero questione o vero richiamo fusse enfra padre et filliuolo mancepato, o vero enfra fratelli carnali, o vero enfra suoro carnali, o vero enfra madre et filliuolo, o vero enfra zio et nipote carnale, sì da lato di madre come di padre; sien constrecte le parti, a petizione di chiunque l’addimandasse, d’eleggere due arbitri et amici comuni, cioè ciascheuna parte uno, sottoposti de la detta Arte. O vero altri, di ragione et di facto; et in essi compromettere d’ogne e sopr’ogne lite et questione o vero richiamo el quale fusse o éssar potesse enfra loro, per qualunque ragione o vero cagione.>>


Citiamo poi un precetto dello Statuto di Buje del 1420 in Istria: “Ogni volta che sarà lite civile tra Padre e Figlio, o tra il Figlio e la Madre, o figli, et converso, ovvero tra fratelli e sorelle, ovvero tra fratelli, così de cose mobili che immobili, ordiniamo che il Reg.to di Buje debbi, o sia tenuto astringer quelle tali persone congionti litiganti insieme a compromettersi di esse differenze in arbitri, o arbitrotori, uno ovvero più, come parerà al Reg.to. E se detti arbitri od arbitratori non potessero essere d’accordo a sentenziar sopra essa differenza che vertisse tra esse parti, delle quali fosse compromesso in quelli, che in quel caso il Reg.to di Buje siua tenuto, e debbi da altro arbitro, et arbitratore presso quelli che non fossero concordi, il quale con quelli arbitri et arbitratori in tal modo che quele cose saranno state date, arbitrate, e sentenziate tra esse parti, per la maggior parte di essi arbitri debino valer, e tener, et haver perpetua fermezza e si debbino osservar da esse parti…”[16]


Gli Statuti di Provenza del 1491 prevedevano più in generale l’arbitrato forzato “pel maggior bene universale del paese, e per restringere l’uso disordinato del contendere[17]”: vi si dovevano sottoporre i nobili, i gentiluomini, i signori e loro vassalli, le comunità, i parenti ed affini ed i coniugi.


Un editto di Francesco II[18] del 1560 stabilì l’arbitrato obbligatorio in materia di divisione ereditaria[19]: la decisione degli arbitri aveva efficacia di cosa giudicata e solo successivamente all’esecuzione poteva essere oggetto di appello. Oggi invece non si ammette più l’obbligatorietà dell’arbitrato, ma si è stabilito che per la materia della divisione sia condizione di procedibilità la mediazione[20].


La legislazione civile della Corsica nel 1600 attesta la presenza di arbitri detti Baleri che potevano fungere anche da esecutori delle loro sentenze.


Nel 1698 in Inghilterra si incoraggiò l’arbitrato per i rapporti tra padroni e servitori con le leggi 9 e 10 c. 15 di Guglielmo III d’Orange[21].


Nel 1673 con l’Ordonnance sur le commerce[22] Luigi XIV istituì l’arbitrato obbligatorio in materia di società: le sentenze degli arbitri erano però sempre appellabili[23].


Sottolineiamo tuttavia che l’idea non era originalissima: già il libro XVII delle Pandette di Giustiniano (titolo II pro socio art. 2 c. 8) prevedeva che le quote sociali potessero essere determinate da un arbitro.


Dal momento che la norma luigina costituì il modello per il Codice commerciale francese del 1807, si ritiene qui di richiamare i precetti più rilevanti.


Il titre IV Des sociétés all’art. 9 stabiliva che in ogni contratto di società fosse contenuta la clausola di sottomissione agli arbitri di tutte le controversie intervenute tra gli associati; e  che anche se la clausola fosse stata omessa ciascun associato avrebbe potuto nominarlo, unitamente agli altri; altrimenti l’arbitro sarebbe stato nominato dal giudice per coloro che avessero rifiutato[24].


Si prevedeva poi per il  caso di morte o di lunga assenza di uno degli arbitri che gli associati ne nominassero un altro e che in caso di rifiuto vi provvedesse il giudice[25].


Se gli arbitri fossero stati divisi nei pareri potevano nominare altri arbitri senza dover ottenere il consenso delle parti; e se essi non si accordavano ne venivano nominati altri dal giudice[26].


Le sentenze arbitrali rese tra associati, per negozio, mercanzia, o banco, dovevano essere omologate nella Giurisdizione consolare se ve ne fosse; altrimenti nei Seggi Ordinari dei Giudici Regi, o da quelli dei Signori[27].


Con decreto 16 agosto 1790 l’Assemblea costituente francese stabilì che in caso di questioni tra familiari o di tutela si dovessero eleggere parenti, vicini od amici come arbitri che sentivano le parti e prendevano una decisione motivata[28].


Ogni parte nominava due arbitri e, se una parte rifiutava, la nomina era fatta d’ufficio dal giudice di pace; se i quattro arbitri avevano differenti opinioni ne nominavano un quinto per stabilire la preponderanza del voto.


Chi si sentiva leso dalla decisione arbitrale poteva appellarla al tribunale di distretto.


Sempre in Francia nel 1793 si istituì un arbitrato obbligatorio per le rivendiche di proprietà effettuate dai comuni: gli arbitri però decidevano sempre a favore degli enti locali[29].


Il diritto di adire gli arbitri viene sancito come principio dalle Costituzioni francesi del 1791[30], 1793[31] e 1795[32].


Il 9 febbraio del 1796 fu abrogato sia l’arbitrato familiare, sia quello obbligatorio.


Nel Regno di Sardegna l’arbitrato tra stretti congiunti, se qualcuno ne facesse richiesta, resterà obbligatorio sino al 1827[33].


Nel Codice di commercio francese[34] del 1807 rimase un arbitrato obbligatorio con riferimento alle questioni societarie[35] detto arbitrato “di obbligo”.


Ai primi dell’Ottocento l’arbitrato veniva definito come “una specie di tribunale commerciale, una giurisdizione amichevole, innanzi alla quale i negozianti trattano in alcuni casi le loro quistioni”[36].


In effetti in certi casi la competenza a decidere apparteneva al tribunale, ad esempio quando si discutesse sulla qualità di socio o meno di una delle parti, ovvero quando la lite invogliava il rapporto con un non socio[37].


I compilatori del Codice avevano recepito ormai la distinzione tra arbitrato volontario ed arbitrato “di obbligo”. Il primo riguardava gli individui non commercianti[38], mentre quello “di obbligo”, unico disciplinato dalla Codice di commercio[39],concerneva “le questioni fra soci commercianti e per oggetti relativi alle loro società” che non fossero contrarie alla legge.


Gli arbitri erano persone scelte per dare la loro “opinione” sulla lite che veniva loro assoggettata, e questa opinione acquistava la forza d’una sentenza, dopo che l’autorità competente avesse ordinato che venisse eseguita.


Il termine per la decisione degli arbitri veniva decisa dalle parti: se effettuata la nomina le parti non si accordassero sul termine esso veniva determinato d’ufficio dal tribunale[40].


Gli arbitri propriamente detti andavano distinti da quelli che si chiamavano “conciliatori amichevoli”, i quali ultimi non erano obbligati ad attenersi strettamente alle forme legali[41].


Gli arbitri “di obbligo“ venivano nominati dalle parti o dal tribunale di commercio[42] ed erano a differenza degli arbitri volontari e degli amichevoli compositori, essi stessi giudici rappresentanti del Tribunale.


In sostanza gli arbitri costituivano il primo grado di giudizio del processo societario ed il loro foro era inderogabile.


La nomina degli arbitri poteva avvenire con atto stragiudiziale, di notaio ovvero con atto giudiziale[43].


Il compromesso non era necessario proprio perché i soci non avrebbero potuto derogare al foro imposto nemmeno con l’unanime consenso.


Qualunque consocio che rifiutasse di nominare il suo arbitro entro un termine stabilito, poteva essere chiamato dinanzi al tribunale di commercio per nominarlo, e se rifiutava vi provvedeva il Tribunale con aggravio di spese del socio renitente.


I poteri degli arbitri “di obbligo” erano fissati dalla legge, ma se le parti avessero voluto modificarli potevano scegliere arbitri volontari e regolare la lor missione; in difetto di scelta contraria espressa però gli arbitri venivano considerati “di obbligo” con le attribuzioni giurisdizionali di legge.


Nel caso di morte o di ritiro d’un arbitro, i punti che fossero già stati stabiliti dai primi arbitri dovevano essere nuovamente deliberati con l’arbitro sostituto, in quanto esso non era altro che un nuovo giudice.


Dovevano quindi comunicarsi a  quest’ultimo tutti gli atti e mezzi di difesa, e si doveva permettere a lui di concorrere cogli altri arbitri alla discussione generale ed alla formazione col voto della sentenza.


Un arbitro scelto e che avesse accettato la missione affidatagli, se si fosse rifiutato di adempierla, senza valevole scusa, poteva essere obbligato dal giudice a pagare i danni ed interessi, salvo regresso contro la parte in caso di dolo, frode o concussione.


Il codice di commercio stabiliva poi che le parti consegnassero i loro documenti e scritture agli arbitri senza alcuna formalità di giustizia[44].


Il socio che tardasse a farne la consegna veniva richiamato ad effettuarla entro dieci giorni[45]; ma gli arbitri, secondo il bisogno, potevano prorogare il termine per la presentazione di questi documenti[46].


La sentenza degli arbitri doveva essere motivata[47] e depositata presso il tribunale di commercio[48].


Doveva essere pronunciata in presenza delle parti, poiché era loro diritto all’atto della pronuncia di poter indicare eventuali errori.


Nell’arbitrato “di obbligo” quando occorreva un esame di conti, di libri, della corrispondenza, e di altri documenti, gli arbitri non potevano, come avrebbero potuto fare i giudici, assegnarne l’esame a terzi.


Nei caso però di esame o stima di mercanzie, gli arbitri avevano il diritto di nominare degli esperi incaricati di farne loro rapporto, quando non avessero le cognizioni necessarie per pronunciare sulla questione.


La sentenza degli arbitri veniva resa esecutiva, senza alcuna modifica e veniva trascritta sui registri dietro ordine del presidente del tribunale, che era tenuto a darlo entro tre giorni dopo la presentazione della sentenza[49].


II deposito della copia della sentenza degli arbitri doveva essere poi seguito dalla registrazione, in difetto il presidente del tribunale non poteva ordinarne l’esecuzione.


I giudizi arbitrali non si potevano mai opporre a terzi ed erano oggetto di appello alla Corte di Appello o di ricorso in Cassazione solo se non vi si avesse espressamente rinunziato[50].


In Francia peraltro l’arbitrato forzoso in materia societaria venne abrogato nel 1856.


Il Codice di procedura civile leopoldino del 1814[51] dedica agli arbitri il titolo VIII De giudizj compromissarj della parte quinta, contenente ben ventiquattro articoli (1097-1121).


Interessanti sono alcuni principi.


Gli arbitri non potevano accedere agli atti di causa sino a che non avessero accettato il compromesso e fatta registrare la loro accettazione presso il Tribunale competente (art. 1099).


Gli arbitri non potevano essere revocati durante il termine del compromesso se non con il consenso di tutti i compromittenti (art. 1105).


Le parti potevano conferire agli arbitri ogni facoltà di esame sommario, senza formalità, e avuto riguardo alla sola verità di fatto e in questo caso gli arbitri potevano fare pubblicare la loro sentenza senza veruna forma di procedura (art. 1107).


Il compromesso poteva non consentire agli arbitri l’istituzione di un terzo arbitro e dunque la sentenza o lodo poteva essere deliberata da due arbitri (art. 1118).

 

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[1] Anche se l’origine è legata forse a Costantino.

[2] Così la definisce in una legge l’Imperatore Arcadio e viene ripresa con lo stesso titolo nel codice Giustinianeo. Si definiva audientia e non iudicium perché non si riconosceva ai vescovi una competenza territoriale.

[3] Ciò era già un portato del Codice Theodosiano, VI, 342, ma lo si attribuisce ad una legge di Valentiniano III.

[4] CIMMA, SCAMUZZI; contra VISMARA. Cfr. M. R. CIMMA, L’episcopalis audientia nelle costituzioni imperiali da Costantino a Giustiniano, ed. Giappichelli Torino, 1989. G. VISMARA, La giurisdizione civile dei vescovi (sec. I-IX), ed. Giuffré Milano 1995.

[5] Cfr. G. ROMAGNOSI, Scritti inediti, Bolis, Bologna, 1862, p. 238 e ss.

[6] V. amplius T. INDELLI,  La episcopalis audientia nelle costituzioni imperiali da Costantino a Valentiniano III (sec. IV-V d. C.), in http://www.sintesionline.info/index.php?com=news&option=leggi_articolo&cID=85

[7] Vediamo ad esempio lo Statuto di Montagutolo dell’Ardinghesca  (1280-1297).

[8] § LVII Statuto Montagutolo. Cfr. F.L. POLIDORI, Statuti senesi scritti in volgare nei secoli XII e XIII, Gaetano Romagnoli, Bologna, 1863, p. 18.

[9] L’influsso delle XII Tavole è dunque fortissimo nel Medioevo.

[10] § LXXXIII Statuto Montagutolo. Cfr. F.L. POLIDORI, Statuti senesi scritti in volgare nei secoli XII e XIII, Gaetano Romagnoli, Bologna, 1863, p. 25.

[11] § CXIIX Statuto Montagutolo. Cfr. F.L. POLIDORI, Statuti senesi scritti in volgare nei secoli XII e XIII, Gaetano Romagnoli, Bologna, 1863, p. 33-34.

[12] § CXXXI Statuto Montagutolo. Cfr. F.L. POLIDORI, Statuti senesi scritti in volgare nei secoli XII e XIII, Gaetano Romagnoli, Bologna, 1863, p. 34.

[13] § CLX Statuto Montagutolo. Cfr. F.L. POLIDORI, Statuti senesi scritti in volgare nei secoli XII e XIII, Gaetano Romagnoli, Bologna, 1863, p. 46.

[14] L. BORSARI, Il Codice di procedura civile italiano annotato, sub art. 8, L’Unione Tipografica editrice, Napoli, 1869, p.  51.

[15] Di comprométtare la questione entra padre e figliolo. Cfr. F.L. POLIDORI, Statuti senesi scritti in volgare nei secoli XII e XIII, Gaetano Romagnoli, Bologna, 1863, p. 213.

[16] Capitolo 118 de compromessi da farsi da persone congonte e litiganti. V. L’Istria, volume V, Sabbato 5 ottobre 1850.

[17] Intento anche del legislatore del 2010 con riferimento alla mediazione.

[18] Giovane re francese.

[19] Perché la questione era più di fatto che di diritto e perché con l’arbitrato si manteneva la pace e l’amicizia tra i prossimi parenti. Le parti dovevano nominare tre arbitri tra parenti, amici e vicini.
Secondo alcuno l’arbitrato obbligatorio investì anche il diritto commerciale quando le parti erano commercianti. Cfr. Nuovo dizionario universale tecnologico o di arti e mestieri e della economia industriale e commerciante compilato dai Lenormand, Payen [a.o.] Prima traduzione italiana, G. Antonelli, Venezia, 1835, p. 410.

[20] Art. 5 c. 1 decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (in vigore parzialmente dal 20 marzo 2011: la materia del condominio e dei sinistri eè divenuta invece condizione di procedibilità il 20 marzo 2012). Cfr. Art. 2 c. 16–decies legge 26 febbraio 2011 n. 10. Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, recante proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie. (GU n. 47 del 26-2-2011 – Suppl. Ordinario n. 53) In vigore dal 27/02/2011.

[21] A. MACDONALD, Handybook of the law relative to Masters, Workmen, Servants, and Apprentices, in all trades and occupations, William Mackenzie, London, 1868, p. 27.

[22] http://partages.univ-rennes1.fr

[23] H. L. DE PRÉZEL, voce ARBITRATO, in  Dizionario del cittadino,o sia ristretto storico,teorico e pratico del commercio, Volume 1, traduzione italiana, Remondini di Venezia Editore,  Bassano,1781, p. 39.

[24] <>.

[25] Art. 10. <>

[26] ART. 11. <>. Cfr. H. L. DE PRÉZEL, voce ARBITRATO, in  Dizionario del cittadino,o sia ristretto storico,teorico e pratico del commercio, op. cit., p. 39.

[27] ART. 13. <> Cotale omologazione era tanto più necessaria, in quanto l’ipoteca sui beni immobili del debitore condannato, non poteva computarsi se non dal giorno della sentenza omologata. H. L. DE PRÉZEL, voce ARBITRATO, in  Dizionario del cittadino,o sia ristretto storico,teorico e pratico del commercio, op. cit. p. 39.

[28] Che veniva ricevuta dal giudice di pace.

[29] G. L. J. CARRÉ – A. CHAUVEAU, Leggi della procedura civile di C.J.L. Carré, cit. p. 75.

[30] “5. Il diritto dei cittadini di chiudere in via definitiva le loro contestazioni per la via dell’arbitrato, non può ricevere alcun attentato mediante gli atti del Potere legislativo.

[31] “Art. 86 – Non si può attentare in nessun modo al diritto che hanno i cittadini di fare decidere le loro liti da arbitri di loro scelta”.

[32] “Art. 210 – Non si può attentare in alcun modo al diritto di far decidere le controversie ad arbitri scelti dalle parti”.

[33] F. BETTINI, Giurisprudenza degli Stati Sardi dal 1848 al 1859, Unione Tipografica Editrice, Torino, 1861, p. 121.

[34] Codice che era nato da varie esigenze tra cui quella di unificare una disciplina dispersa in vari provvedimenti tra cui la citata ordinanza del 1673 e l’ordinanza della marina mercantile del 1681.

[35] Libro I, Titolo III (Delle società) sezione II (Delle contestazioni tra i socj e del modo di deciderle), articoli da 51 a 64.

[36] Nuovo dizionario universale tecnologico o di arti e mestieri e della economia industriale, op. cit. p. 409 e ss.

[37] Codice di commercio colle note tratte dalle disposizioni legislative e dalle massime della giurisprudenza francese dal 1791 al 1842, 1844, Le Monnier, p. 131.

[38] Era considerato un mezzo libero da forme, veloce ed economico per terminare le questioni.

[39] Il codice di procedura civile si occupava di altri “arbitramenti”. V. Codice di commercio preceduto dai motivi presentati al Corpo legislativo dal Signor Regnaud di Saint-Jean-D’angely, versione italiana, Per Giuseppe Marelli Stampatore e libraio, Milano, 1807,p. XVII-XVIII.

[40] Articolo 54 Codice di commercio.

[41] Considerazione questa che richiama il diritto giustinianeo.

[42] In caso di rifiuto; v. articolo 55 Codice di commercio.

[43] Articolo 53 Codice di commercio.

[44] Articolo 56 Codice di commercio.

[45] Articolo 57 Codice di commercio.

[46] Articolo 58 Codice di commercio. Se vi era rinnovazione del termine o se il primo termine era spirato gli arbitri decidevano sui soli allegati e memorie consegnate (articolo 59 Codice di commercio).

[47] Articolo 61 comma 1 Codice di commercio .

[48] Articolo 61 comma 2 Codice di commercio.

[49] Articolo 61 comma 3 Codice di commercio.

[50] Articolo 52 Codice di commercio. La rinuncia non era possibile laddove fosse coinvolto un minore (articolo 63 Codice di commercio).

[51] Regolamento di procedura civile per i tribunali del Gran-ducato di Toscana, Nella Stamperia di Carlo Cambiagi, Firenze, 1814.
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